C’è il banco della vita, ci siamo noi intorno al tavolo e ci sono gli spettatori che rimangono lì alle nostre spalle a guardare, ma mai a partecipare, perché è molto più semplice riempirsi delle felicità o delusioni altrui piuttosto che mettersi in gioco: tutta l’adrenalina, i possibili timori davanti ad una scelta, sono soltanto un riflesso, come l’emozionarsi di fronte a quanto capita a dei protagonisti di un film.
Spettatori e niente più.
A spaventare, come sempre, il solito condizionamento del fallimento: “non gioco perché ho paura di perdere”. Non lo si ammette mai, si trovano scuse razionali e plausibili, che forse convincono molti, non tutti però e, soprattutto, non convincono chi le propone. E il malcontento si accumula e diviene tangibile.
Espressioni scurite da desideri repressi, si lamentano per le realizzazioni di chi ha osato, di chi ha giocato, di chi si è impegnato, caduto, si è rialzato ed ha ottenuto.
Un chiudersi in disparte e lamentarsi col mondo: “voi non sapete quello che ho passato io”. Come se davvero al mondo gliene importasse qualcosa di quello che si affronta, come se in qualche modo debba esserci un certo ritorno per via dei drammi che si incontrano lungo la strada. Come se tutto dipendesse dall’esterno e non dall’interno, come se un amore perso possa far la differenza sugli esiti. Come se vi fosse un costante termine di paragone col trascorso.
La realtà, fortunatamente, è che non esiste alcun noi, non esiste un benessere comune, c’è – viceversa – un egoismo d’insieme, dove ognuno pretende di avere per il solo diritto di esserci, dove si fa qualcosa, spesso, per avere del presunto bene indietro.
Se non fosse chiaro: non è tanto il raggiungimento del risultato a fare la differenza, dato che una volta ottenuto, per vivere, bisognerà stabilirne un altro, ma l’incertezza, l’ansia di raggiungerlo che rende appunto vivi.
Il tavolo verde è lungo e ben fornito di sedie, si può decidere di rimanere alle spalle di chi tenta la propria sorte o smetterla di lamentarsi per le cose che non avvengono e prendere posto: a voi la scelta.
..E quando canterai la tua canzone,
la canterai con tutto il tuo volume:
che sia per tre minuti o per la vita,
avrà su il tuo nome..
(Ligabue – Quando canterai la tua canzone)
Fa parte delle strategie, scegliere di perdere alcune mani per dare di sè, una fittizia impressione. Lo si fa perché si vuole avere quella determinata mano. Qualcosa si perderà -è inevitabile- qualcosa che vale perdere perché tanto il ritorno sarà molto più soddisfacente di quello che si è sacrificato. Sono scelte: c’è chi preferisce non rischiare mai e andare sul sicuro e chi invece vuole il piatto più grosso, quello che ritiene essere alla sua altezza e per questo è disposto a cedere una piccola parte.
Non conta il modo o il mezzo con cui si arriva al risultato, conta ottenerlo!
Conta andare, non rimanere, conta volere e pianificare per ottenere, tutto giusto, peccato che troppe persone rimangano ai margini e maledicano e si lamentino di chi la voglia, l’impegno ce lo mette sul serio:-)
Un chiudersi in disparte e lamentarsi col mondo: “voi non sapete quello che ho passato io”. Come se davvero al mondo gliene importasse qualcosa di quello che si affronta, come se in qualche modo debba esserci un certo ritorno per via dei drammi che si incontrano lungo la strada.
in riferimento ai nostri discorsi, ti adoro 🙂 e poi, la canzone che citi è azzeccatissima.
Ti adoro anche io, tesoro 🙂 D’altronde siamo sempre un pozzo di riflessioni e verita’ insieme ;*